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Lunedì, 11 Gennaio 2021 22:46

Il buco nero delle partecipate e delle privatizzazioni

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In Italia nel corso dei decenni si è molto sfumato il concetto di Stato inteso come quella organizzazione, imperniata sul bene comune, in grado di rendere più equa e giusta la società. L’interesse della collettività si è sempre più spostato verso l’interesse privato e la politica poco o nulla ha fatto per contrastare questo fenomeno. Un’interpretazione dell’economia basata esclusivamente sul mero profitto, senza considerare gli effetti sociali che ciò avrebbe potuto comportare, ha fatto il resto.

 

Eppure nel dopoguerra si era creato un apparato statale o un “sistema Paese”, così come lo si definisce oggi, funzionante, dinamico, che guardava al futuro e finalizzato alla crescita del benessere di tutti. Si concepirono e realizzarono quelle infrastrutture che ci hanno fatto entrare nel ristretto gruppo dei paesi più avanzati, intesi come quelli con la ricchezza nazionale netta più grande. Siamo stati tra i primi paesi al mondo a creare una rete ferroviaria, stradale e autostradale, di produzione (anche con energie rinnovabili) e distribuzione di energia elettrica, di telecomunicazioni, di navigazione marittima e aerea. Abbiamo dato vita a poli industriali all’avanguardia capaci di competere con chiunque a livello internazionale e creato un sistema sociale basato su servizi pubblici all’avanguardia: dalla sanità, all’istruzione, al lavoro, ai trasporti, all’assistenza alle fasce più deboli.

Certo la classe politica era di ben altro spessore rispetto a quella attuale. Eravamo in presenza dei padri costituenti e di grandi dirigenti che guardavano al bene dell’azienda pubblica gestita in un’ottica di interesse collettivo, non pensando solamente a dividendi, poltrone e alle proprie tasche.

Si crearono così i presupposti per creare quel grande patrimonio economico, infrastrutturale, culturale e sociale che nei decenni a seguire una classe politica mediocre ha iniziato a dilapidare in nome di ideologie fuori tempo o per cupidigia e arricchimento economico personale. I metodi per porre in essere questo disastro sono stati molteplici e i partiti politici non hanno saputo trovare gli anticorpi per arginare questo scempio. Un esempio tra i tanti sono le privatizzazioni che sono state solamente l’atto finale di una strategia di sgretolamento costante e continuo di quel patrimonio pubblico materiale e immateriale di cui parlavamo sopra. Aziende pubbliche che erano un fiore all’occhiello e con i conti in regola, almeno fino a un certo punto della storia, sono state prese d’assalto da dirigenti di nomina politica il cui fine ultimo era quello di indebolirle a tal punto da far credere all’opinione pubblica che tutto ciò che è pubblico sia inefficiente. E così aziende pubbliche all’avanguardia come ENI, IRI (a cui facevano capo anche le autostrade), Ferrovie dello Stato, ENEL, SIP, Alitalia e molte altre sono state svendute, se non interamente per la gran parte del pacchetto azionario, a gruppi industriali privati vicini al partito o al politico di turno.

Se alle privatizzazioni si aggiunge il marasma delle società partecipate, consorzi, fondazioni, dove il confine tra il pubblico e il privato è sempre labile, eccoci nell’Italia di oggi, quella con un debito pubblico pari a 2.600 miliardi di euro che ovviamente, vista l’entità, non potremo mai pagare né noi né le generazioni a venire. Fatto è che questo debito abnorme costa alle tasche degli italiani dai 60 ai 70 miliardi di euro di interessi l’anno e questi sì che vanno pagati. Pensiamo a quanti ospedali, scuole, impianti sportivi, manutenzioni ordinarie si potrebbero fare ogni anno con simili risorse.

Il fatto grave è che l’abulia e l’indifferenza della politica nazionale ha nel tempo contagiato anche gli enti locali dove si concentrano sprechi inimmaginabili a partire dalle Regioni, con una spesa per la sanità da tempo fuori controllo, alle Province (o città metropolitane) con scuola e viabilità disastrate, per finire ai Comuni che non hanno i soldi per chiudere le buche nelle strade e nei marciapiedi, ma mantengono partecipazioni in enti inutili e improduttivi foraggiando onerosi consigli di amministrazione, collegi dei revisori e molto altro spesso al di fuori del controllo pubblico.

Su ognuno dei capitoli di spesa toccati in precedenza una politica seria e responsabile aprirebbe un dibattito franco e trasparente nell’interesse della collettività, ma finora hanno prevalso biechi interessi personali che non si fermano nemmeno di fronte alla salute e alla vita delle persone. Guardiamo ad esempio alla sanità dove, in un momento difficile come quello della pandemia, stanno venendo a galla molte delle criticità legate alla privatizzazione dei servizi più remunerativi che va di pari passo con la mancanza di risorse nel pubblico dove spesso mancano addirittura beni di prima necessità e dove la carenza di personale sta diventando drammatica. Oppure le concessioni autostradali dove per decenni il privato ha guadagnato fortune immense lucrando sulle manutenzioni (non eseguite) e sulla vita delle persone, vedasi la strage del ponte Morandi, ed oggi ci troviamo una rete autostradale colabrodo con viadotti e gallerie pericolanti.

Anche su questo tema, come su tanti altri, noi crediamo che una via d’uscita possibile sia quella di partire dai territori, dagli enti locali più vicini ai cittadini, che siano essi i Comuni, le Unioni o le Fusioni visto che le Province sono state irresponsabilmente eliminate da una classe politica arrogante e incompetente con ben altri obiettivi che il benessere della collettività. Prossimamente proveremo ad addentrarci nella situazione locale dove tra società direttamente e indirettamente partecipate, fondazioni e consorzi vari c’è di che preoccuparsi per come vengono spesi i soldi pubblici.

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Francesco Comotto

Consigliere Comunale a Ivrea dal 2013.

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